Il lavoro c’è, ma va qualificato
Il 1° maggio è occasione per celebrare il lavoro, ma anche per affrontarne le trasformazioni. Il lavoro non manca, ma cambia: c’è in giro, esiste, ma è la qualità che va migliorata. E soprattutto, c’è bisogno di formare, di far acquisire competenze e di avere una programmazione chiara su cosa significhi davvero “lavoro” nella società contemporanea. Il sistema formativo non può più limitarsi a sfornare aspiranti dirigenti: serve una visione più ampia, capace di coniugare bisogni delle imprese e percorsi formativi adeguati. È necessario comprendere che il lavoro oggi è “liquido”, frammentato, ma non per questo meno centrale. Al contrario, diventa nodo decisivo per la tenuta sociale, economica e culturale del sistema Paese.
La domanda di manodopera cresce soprattutto in quei settori dove la manualità resta imprescindibile: edilizia, impiantistica, manutenzione, meccanica, cura del verde, assistenza tecnica. Tuttavia, la carenza più grave è proprio nei giovani formati per questi ambiti. Gli istituti professionali sono in forte crisi d’identità e iscrizioni: pochi alunni, poca attrattiva, poca consapevolezza del loro valore. Eppure, da anni si parla di rilancio. Serve una rimodulazione della didattica, nuovi investimenti strutturali e, soprattutto, una comunicazione efficace che restituisca dignità e appeal a percorsi non accademici, ma professionalizzanti. L’obiettivo non è solo inserire nel mercato del lavoro, ma farlo con competenze mirate, richieste e apprezzate.
Riconoscere il valore della manualità
Non possiamo formare soltanto classe dirigente. Serve un esercito di uomini e donne capaci di incidere nei processi fondamentali delle imprese. E proprio il Primo Maggio ci invita a superare cortei e retorica, per riflettere su come coniugare davvero imprenditori, artigiani e società civile in un patto nuovo, generazionale, incentrato sul lavoro. Negli ultimi anni si è parlato molto di incubatori d’impresa, ma bisogna affiancare a questi anche percorsi reali di avviamento al lavoro. L’alternanza scuola-lavoro, se ben pensata e non svilita, può essere uno strumento prezioso. E accanto alle cosiddette “nuove professioni”, è fondamentale rivalutare i mestieri di sempre, che hanno generato interi sistemi e indotti economici.
Viviamo in una società consumistica, dove ogni oggetto ha un ciclo di vita breve: si compra, si usa, si getta. Televisori, lavatrici, scarpe, abiti: nulla si ripara più, tutto si rifiuta. In questo contesto, figure come l’elettrotecnico, il sarto, il calzolaio rischiano l’estinzione, ma è proprio qui che va ripensata la loro funzione. Vanno riconvertite, aggiornate, ma non eliminate. Sono lavori che hanno un’anima e che possono trovare spazio anche in un contesto di economia circolare, riparazione, riciclo.
Nuove competenze per nuovi modelli
Accanto a questi mestieri tradizionali, si sono affacciate le nuove figure professionali legate alla transizione ecologica e alla sostenibilità ambientale: tecnici del riciclo, addetti alla manutenzione del verde urbano, esperti in gestione dei rifiuti, operatori di impianti per energie rinnovabili, agrotecnici specializzati in agricoltura sostenibile, eco-designer, certificatori ambientali, consulenti per la mobilità sostenibile. Queste nuove professioni sono il segno di un lavoro che cambia, che non genera crisi, ma modelli diversi da quelli del passato.
Il lavoro non è in crisi, semplicemente si trasforma per rispondere alle nuove esigenze della società. Per coglierne le potenzialità, occorre una visione ad ampio spettro: servono politiche educative lungimiranti, infrastrutture formative solide, alleanze strategiche tra scuola, imprese e territorio, “protezione fiscale” per gli imprenditori. Il 1° vada oltre i luoghi comune e la celebrazione, sia anche un’occasione concreta per riflettere sulla rinascita sociale e produttiva.