La festa nata dai ragazzi
“Ogni bambino dovrebbe avere almeno un’estate per giocare in strada, senza orari, senza compiti, solo con la luce che si spegne tardi e la voglia di stare insieme.”
Succede ad Angri, nei giorni dedicati al patrono San Giovanni Battista, qualcosa che va oltre il folklore o il semplice entusiasmo giovanili. Succede che un gruppo di bambini e adolescenti si riappropria simbolicamente dello spazio pubblico, delle strade del proprio paese, costruendo con le proprie mani una piccola statua del santo, fatta di materiali poveri e organizzando una processione alternativa, spontanea, ingenua, e per questo di grande impatto emotivo. Non c’è nessuna regia adulta, nessun patrocino, nessun palco: solo l’iniziativa di giovanissimi che hanno la necessità di manifestare, di raccontare, a modo loro un’appartenenza.
Il ritorno dell’infanzia nelle strade
La processione Battistina per questi giovani è molto più di un gioco: è la manifestazione di un bisogno di un legame ben più profondo. Questo allegro e simbolico corteo ha percorso festante le strade in modo scomposto, rumoroso, allegro: dietro la statua rielaborata, c’erano il mondo dei “piccoli”, i suonatori della loro piccola banda, i portatori, quelli che distribuivano i volantini fatti a mano. Una festa dentro la festa, ma soprattutto un gesto di forte richiamo pedagogico: questi ragazzi hanno ridato vita a una scena sociale ormai scomparsa, quella dell’infanzia vissuta per strada, della “tribù” dei piccoli che una volta riempiva i rioni, i marciapiedi, i cortili, con i propri giochi, le proprie liturgie, i propri codici.
L’infanzia come scuola di cittadinanza
Un tempo, fino alla fine degli anni Ottanta, le strade erano piene di bambini. Si giocava a pallone tra due pietre messe a mo’ di porta, si costruivano carretti con i cuscinetti a sfera, si imitavano, tout court, i grandi anche nei riti religiosi o nei cortei civili. Era la strada maestra dell’apprendimento sociale, dove si cresceva sani imparando le regole e a condividere, a litigare, a fare pace, a rispettare i turni, a inventare.
I nuovi stili di vita, l’aumento dei pericoli e le paure genitoriali, dell’ipercontrollo, dei doppi vetri e delle videocamere di sicurezza ha praticamente fatto sparire completamente l’infanzia dalle strade cittadine, relegata dentro le mura domestiche o nei contesti recintati. “Il vicolo è stata la mia università, lì ho preso tutte le lauree, dalle risse ai primi amori, dal dialetto alla grammatica della vita” ha scritto Erri De Luca, tra i narratori più sensibili al tema.
Questi giovani, organizzando la loro processione, hanno dimostrato che l’infanzia vissuta all’aperto è anche formazione civica: si impara a collaborare, a rispettare i tempi, a coinvolgere ed essere coinvolti. Sono momenti che valgono più di tanti progetti educativi scritti a tavolino. Una iniziativa semplice, ma potente, che ci sottolinea l’importanza dell’aggregazione e della creatività come elementi di crescita. È in effetti una piccola rivoluzione: non un atto di nostalgia, ma un bisogno profondo di riscoprire la libertà del gioco, dell’iniziativa condivisa, del vivere la città come uno spazio comune.
Un patrimonio da tutelare e valorizzare
In quest’epoca prevalsa dalla virtualità, in cui il tempo dell’infanzia è sempre più imprigionato tra schermi e regole, questa processione ha restituito voce, spazio e protagonismo ai più giovani. È un esempio da non archiviare come curiosità folkloristica, ma da ponderare con attenzione, perché mostra una via concreta per recuperare senso e bellezza allo “stare insieme”. Un segnale da accogliere, proteggere e magari replicare. È innanzitutto il desiderio di cittadinanza, espresso senza slogan, ma con la forza creativa della giovinezza.
Oggi questa infanzia di strada è rispuntata, viva e piena di senso, come un piccolo miracolo laico nel giorno del santo patrono. Ha coinvolto tutti: bambini, ragazzi, adulti che li guardavano ammirati. In quel corteo di cartone e sorrisi si è rivista una umanità che resiste, fatta di relazioni non mediate, di manualità che diventa racconto, di persone che si ritrovano partendo dal basso.
Ai giovani fornitegli attrezzi e vi ricostruiranno il mondo declinato secondo la loro visione, meno cattivo e più spontaneo. La vita è giovane e non muore mai. In tempi in cui si cerca di insegnare l’educazione con strumenti digitali e rigide regole, forse basterebbe osservare una scena come questa per comprendere che la cittadinanza attiva nasce dal gioco, dalla creatività libera, dalla partecipazione reale al proprio territorio. Quei ragazzi non hanno solo costruito una statua: hanno rimesso in moto la possibilità di ritornare a immaginare, che è la prima forma di futuro.
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