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La storia dimenticata di Giovanna Curcio e il Terzo Settore che non include

Giovanna morì sfruttata a 15 anni. Il suo ricordo manca. Anche il Terzo Settore non ha saputo includere la sua memoria.

5 luglio 2006: la coscienza civile che si è fermata

Giovanna Curcio aveva quindici anni. Era estate, e nel suo paese, Montesano sulla Marcellana, i pomeriggi roventi si stemperavano nel silenzio delle montagne. Ma quel giorno, dentro un seminterrato, non c’era alcuna tregua dal calore: solo fumo, fuoco, e una porta che non si apriva più. Giovanna morì così, tra le fiamme di un materassificio irregolare, in compagnia di un’altra donna, Annamaria Mercadante, 49 anni, anch’ella operaia invisibile in un Sud che spesso si volta dall’altro lato. Una tragedia evitabile. Una condanna a 8 anni per il titolare dell’attività, per omicidio colposo, lesioni e violazioni delle norme di sicurezza. Questa la condanna per due vite negate, bruciate insieme a ogni prospettiva di una vita normale, di un riscatto sociale.

Una paga da fame, un destino scritto

Giovanna cuciva materassi per 1,50 euro l’ora, senza contratto, senza uscite di emergenza, senza futuro. Era una delle tante ragazze del Mezzogiorno che, lontano dai radar delle statistiche e delle buone intenzioni, aiutano in silenzio le famiglie con lavoretti  con turni da 9 ore, ambienti tossici e nessuna tutela. Eppure, a quasi vent’anni da quella tragedia, nessuna via, nessuna targa, nessun riconoscimento è stato dedicato a Giovanna Curcio e ad Annamaria Mercadante. E quel silenzio è forse la condanna più atroce.

La memoria negata e il fallimento dell’impegno sociale

Nel 2016 il regista Andrea D’Ambrosio ha tentato di rompere questo muro d’omertà con il docufilm “Due euro l’ora”, riportando alla luce una vicenda che dovrebbe far parte del nostro patrimonio civile. Ma a parte il cinema e qualche articolo d’occasione, Giovanna è rimasta sola.

La morte di Giovanna dovrebbe interrogare anche il mondo del Terzo Settore, che pure si proclama vicino ai fragili, ai dimenticati, agli esclusi. Ma dove erano – e dove sono – le grandi associazioni, le cooperative, i forum, quei progetti, quando si parla di lavoro minorile, sfruttamento femminile, sicurezza nei luoghi di lavoro sommersi? Frequente, queste realtà si concentrano su bandi, progettualità autoreferenziali, rendicontazioni tecnocratiche e clientelismo dimenticando che inclusione significa anche raccogliere storie come quella di Giovanna e farne esemplari battaglie pubbliche.

Non basta ergersi a presidio del sociale se si ignora ciò che arde nei margini: le ragazze che lavorano in nero, i ragazzi che abbandonano la scuola per un salario da fame, le famiglie costrette al compromesso della sopravvivenza e del mancato futuro.

Una battaglia ancora aperta

Non è morta per fatalità. È stata uccisa dallo sfruttamento”: pare così disse un soccorritore all’epoca, davanti a un corpo senza vita, tra le macerie annerite del seminterrato. Non si può parlare di incidente, quando a uccidere è la povertà strutturale, l’assenza di alternative, la mancanza di controlli, il vuoto lasciato anche da chi avrebbe il compito di colmarlo.

Giovanna Curcio resta quel volto, quel breve esempio di vita, che manca nei convegni sull’inclusione. È il nome che dovrebbe essere pronunciato ogni volta che si parla di welfare e giustizia sociale. E invece, oggi, a quasi vent’anni da quel rogo, di lei resta il silenzio. E la vergogna di non averle ancora dedicato nemmeno una strada ma anche un aula magna o un giardino. Fatelo.

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