“Le Petit Sort. Incantesimo a Parigi” di Filomena Iovinella è un romanzo che non si legge: *si attraversa.
Come un boulevard parigino al tramonto, il testo vibra di luci oblique, di ombre che sussurrano, di parole che non si limitano a raccontare ma evocano, incantano, trasformano.
L’autrice costruisce un universo narrativo stratificato, dove ogni ambientazione è una soglia e ogni personaggio una chiave.
La Parigi di Filomena Iovinella non è mai cartolina: è carne e sogno, è il luogo dove il sortilegio prende forma, dove la letteratura si fa corpo. Roma, in contrasto, è memoria e radice, un contrappunto mediterraneo che bilancia l’etereo della capitale francese. Le librerie di Andrea e Raia sono templi della parola, luoghi in cui la scrittura si rifrange in mille direzioni, e la taverna di Inge è il cuore pulsante del romanzo, dove il privato si mescola al pubblico, dove il cibo diventa narrazione e il cinema un sottotesto segreto.
La scrittura di Iovinella è densa, lirica, colta, ma mai ostile. È una lingua che chiede attenzione, che premia la lentezza, che si nutre di rimandi e stratificazioni. Il lettore è chiamato a un esercizio di immersione, ma ne esce trasformato, come chi ha vissuto un piccolo incantesimo. Il romanzo è un elogio alla parola scritta, alla sua capacità di creare mondi, di svelare verità, di custodire misteri.
Intervista a Filomena Iovinella
Il tuo romanzo è attraversato da una tensione poetica costante. Come nasce questa scelta stilistica?
La poesia è il mio respiro naturale. Anche quando racconto, non posso fare a meno di cercare il ritmo, l’immagine, la vibrazione. Non è una scelta, è una necessità. La densità stilistica è il mio modo di rendere giustizia alla complessità delle emozioni.
La taverna di Inge è uno spazio narrativo molto particolare. Come l’hai concepita?
Inge è il mio personaggio più enigmatico. La sua taverna è un luogo di passaggio, di incontro, ma anche di rivelazione. Volevo uno spazio che fosse al tempo stesso concreto e simbolico, dove il cibo fosse memoria e il cinema un gioco di specchi. È lì che i personaggi si spogliano delle maschere.
Hai scelto Parigi e Roma come scenari principali. Cosa ti ha guidato in questa decisione?
Parigi è il luogo del sortilegio, della metamorfosi. Roma è il luogo dell’origine, della parola che si fa pietra. Volevo che il romanzo avesse due poli: uno che spingesse verso l’alto, verso il sogno, e uno che tenesse ancorati alla terra, alla storia.
Nel tuo romanzo le librerie sono più che ambientazioni: sembrano personaggi. Perché?
Le librerie sono i miei luoghi dell’anima. Andrea e Raia non gestiscono semplici negozi, ma universi. Ogni scaffale è una possibilità, ogni libro una porta. Volevo che il lettore sentisse il profumo della carta, il silenzio pieno di attese, la magia che solo una libreria sa custodire.
Stai già lavorando a un nuovo progetto?
Sì, e questa volta mi sto spingendo ancora più in là. È una sfida narrativa e personale. Non posso dire molto, ma sarà un viaggio nel tempo e nella parola. E come sempre, Pathos Edizioni sarà al mio fianco, con la sua energia eclettica e la sua gioia contagiosa.
Allagamenti tra Angri, Pagani e Scafati: la verità nascosta sotto le strade