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Terremoto del 23 novembre 1980: “quella sera stringevo la bottiglia di talco Roberts”

Il terremoto del 1980 sconvolse l'Irpinia, distruggendo vite e comunità, ma generò resilienza, solidarietà e una nuova consapevolezza sulla prevenzione

Terremoto del 23 novembre 1980: “quella sera stringevo la bottiglia di talco Roberts”

Affiorano come dalle macerie. Le memorie del terribile sisma del 23 novembre del 1980. Il terremoto di magnitudo 6.9 che quella “malanotte” colpì l’Irpinia, gran parte della Campania e della Lucania, lasciando dietro di se la distruzione di migliaia di edifici e la perdita di oltre 2500 vite. eventi e fatti che ancora oggi restano impressi indelebilmente negli occhi di quelli che quel giorno, di 44 anni fa, lo vissero e ne rimasero segnati.

Un lutto che si ripete

Da quella sera, ogni anno si ripete il ricorso di quell’infausto lutto. La ricorrenza di quell’inimmaginabile evento catastrofico che lasciò, nel corso dei successivi lustri, conseguenze psicologiche e sociali profonde in tutte le comunità colpite, che non hanno dovettero affrontare solo i danni materiali ma anche la nuova consapevolezza della gestione dei rischi naturali che era in atto, chiaramente inadeguata, cominciando lentamente a riformulare quella che oggi è parte integrante delle politiche territoriali: una diversa e migliore azione preventiva nelle zone dichiaratamente sismiche, l’implemento di nuovi criteri di costruzione e la programmazione della messa in sicurezza degli edifici per le comunità vulnerabili.

Le conseguenze sociali

Le conseguenze sociali del terremoto che “passò e mai trascorse” sono ancora attuali. Le difficoltà economiche conseguenze della distruttiva calamità ridisegnarono sopratutto un quadro demografico delle aree più colpite dando vita a una massiccia “migrazione interna”, particolarmente verso la regione settentrionale: interi nuclei familiari in cerca di lavoro, rimasti senza null’altro si dovettero “ricostruire” una vita. In quei tremendi e interminabili 90 secondi, che colpirono un ‘area di 17.000 km quadrati, che sbriciolò storia e memoria, diedero l’idea di un futuro diverso dove i sogni e lo stile di vita vissuto prima del “grande terremoto”, da migliaia di persone sarebbe cambiato decisamente.

Un campeggio di dolore

La Campania e la Basilicata divennero per lungo tempo un grande campeggio di dolore e precarietà. Tende, baracche e roulotte cambiarono per lungo tempo l’aspetto urbano e paesaggistico di tanti paesi del cratere. Si conviveva ai bordi delle periferie, ai margini delle macerie. Intere famiglie sfollate, convissero con il senso della paura ma riuscirono anche a intessere nuovi legami e relazioni sociali alimentando uno nuovo spirito solidale che si stava smarrendo prima di questo tragico evento.

Curare ferite e dolore

I primi giorni dopo il sisma non c’erano posti che bastassero negli ospedali sopratutto nelle zone colpite dove le strutture e i plessi già datati subirono gravi danni strutturali aumentando la difficoltà a prestare soccorso già delle prime ore e nelle settimane successive. Il personale sanitario nonostante tutto riuscì con tenacia e forza a garantire assistenza medica immediata, affrontando un sovraffollamento di portata enorme, coadiuvati anche dall’incessante lavoro delle squadre di soccorso di volontari arrivati da ogni dove.

Nei decenni post sisma, queste problematiche infrastrutturali ospedaliere incisero e reso più difficile la sostenibilità sanitaria, il ricovero e l’assistenza medica generale. Fu una vera crisi sanitaria, una delle più temibili, perché improvvisa e devastante sul fragile sistema sanitario.

Quella notte portò alla paralisi della comunità. Le attività didattiche furono ferme per lungo periodo, si studiava in proprio. Un lento recupero avvenne mesi dopo con i doppi turni e l’allestimento dei container che sostituirono un po ovunque plessi e aule inagibili ospitando e formando intere generazioni nate già con artriti e reumatismi, conseguenza degli ambienti prefabbricati. E nonostante i fondi stanziati per la ricostruzione, non si riuscì a intervenire con incisività su quello che è poi rimasto un processo complesso e lungo di carenze strutturali. Era difficile anche curarsi l’anima. Non c’erano più tante chiese.

La nuova prevenzione

Da questi anni dannati, segnati da una ricostruzione “a singhiozzo” nacquero nuove consapevolezze circa i piani di sicurezza e la gestione delle criticità naturali che oggi scontiamo ugualmente in termini di alluvioni e frane. In questi ultimi 44 anni, parte di quella popolazione, “sopravvissuta” alla malanotte del 23 novembre del 1980, ha dimostrato una notevole capacità di recupero e adattamento, lasciando crescere dentro di se una nuova coscienza civile solidale e uno spirito resiliente.

Per molte notti, in prossimità della data del 23 novembre, negli anni a seguire, in silenzio, presi dall’angoscia, molti di quelli che c’erano, che avevano visto, vissuto o assistito persone colpite, hanno sempre lasciato alla preghiera silenziosa, il ricordo di quelli che non riuscirono a sopravvivere a quel disastro. E anche questa alba non passerà senza un pensiero. La liturgia della memoria e del lutto non si è mai sopita.

Anche nelle mie memorie di bimba riaffiorano dettagli apparentemente insignificanti ma segnanti: c’è la bottiglia del talco verde della “Roberts” che stringevo tra le mani abbracciata ai miei cari, in quei terribili secondi in cui tutto sembrava una grande giostra mortale.

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angela giordano
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Angela Giordano

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